La prefazione di questa terza raccolta di poesie di Alessandro Moreschini è del critico letterario do. Marco TESTI
Avanguardia, classicismo, sperimentalismo, romanticismo, espressionismo, realismo; classificazioni, rimandi, settorializzazioni: ora si sa che tutto questo gran catalogare sta per fortuna trovando delle limitazioni e che l’aspirazione a compostezze “classiche” può conciliarsi con forzature del lessico e con balzi stilistici in avanti (o indietro che si voglia).
La società dei consumi porta alla sintonizzazione di città e provincia, i mass-media conciliano metropoli e campagne, unificano quelli che un tempo erano compartimenti stagni, luoghi di produzione separati della cultura e dei bisogni.
Nascono individui che chiamiamo ancora, forse con una punta d’incosciente ironia, “poeti”, nelle periferie, nelle campagne e nelle città e si sta omogeneizzando il punto di riferimento comune, punto di riferimento con cui fare più o meno i conti. Intendo dire che ottocento e novecento letterari non sono passati invano e che chiunque, tranne una combattuta e sempre più problematica cultura naif, per avventurarsi nella scrittura poetica non può non tenere in conto quanto sia stato cambiato e conservato da Leopardi a Ungaretti, dalla “corona” a Montale, da Campana a Quasimodo e via elencando, Sempre che siano tenuti in debito conto gli archetipi per il nostro novecento decadente che aleggiano oltr’alpe, da Boudelaire a Rimbaud, da Mallarmé a Valery.
E Alessandro Moreschini dalla sua casa di provincia, ha scritto versi che non sono per così dire improvvisati e buttati lì per uno sfogo di giornata: sono a guardare bene costruzioni (quanto valide sta al lettore verificarlo) inserite, attraverso la lacerazione dei ricordi e delle illuminazioni del proprio giorno, in uno spazio quanto mai ampio, anche se, a voler essere stringati, due o tre nomi, vengono più prepotenti degli altri alla memoria. Ma anche questo sarà il lettore a scoprirlo o, ed è possibile, a negarlo.
Il poeta che scrive dalla sua casa di provincia è dunque consapevole quanto altri del suo mondo referente, dell’insieme delle influenze che consapevoli o no giocano nel suo verso.
Come il poeta della metropoli conosce le angosce del viaggio attraverso le cose che ormai, e lo sappiamo bene, non sono più cose lontane tra loro. Un dolore è un dolore, e un amore, è pur sempre un amore, e così la morte, e l’aspirazione all’Altro, e il sesso, e insomma tutto l’insieme del bagaglio umano il cui canto (o la cui maledizione) distingue il poeta dal resto del mondo.
Moreschini, dicevamo, è un poeta, con un passato di poeta che traccia una strada bene riportabile per compattezza di stile a questa sua ultima fatica. “ Camminare” e “ Sazio d’erbe amare” sono due capitoli che tracciano già un segno distintivo di poesia e d’interiorità attraverso la nebbia dell’anonimato. Questo “Il canto della memoria” è una riflessione non solo sul passato, ma sul futuro, è soprattutto la coscienza che forse queste categorie sono fragili argini rispetto alla percezione intera di un movimento interminabile dove l’orrore per una morte oggi, domani è riflessione di storia; solo il dolore del poeta che scrive e si abbandona ad esso lo conserva alla sua dimensione presente, umana, individuale. Così la violenza “storica” su Gobetti è per un attimo restituita all’immediatezza, allo scandalo degli uomini, quel “ senza fargli aprire la bocca” grida ancora e forte nelle tempie del poeta e attraverso lui in coloro che ricevono la sua testimonianza.
Le quattro partizioni in cui è diviso il libro hanno in comune proprio un movimento psichico di oscillazione¸ dolore e rabbia che si stemperano nell’abbandono paesaggistico della propria terra, senso di “impasse” esistenziale interrotto dalla ricerca di un io leggendario e mitico che pure a volte non riesce a sublimarsi nell’astorico tanto e forte il richiamo della terrestrità dell’accadere: ora che Ulisse è rimasto a Troia/ Penelope succinta/ scende ai festini…/ ..e il pudore affonda la città”.
E’ la violenza quotidiana, la violenza sulle cose e sull’uomo che individua al poeta gli spazi ampi e oscuri della solitudine, del distacco da questo duro battagliare senza pietà che rimanda, ancora ad un salto metafisico verso “ la mia casa stupenda”
Le tentazioni si incrociano ai valori in putrefescenza e a quelli ancora da venire, il rimpianto per le cose che si abbandonano all’ala del tempo diviene ansia se il mondo anche esso si spopola nelle piazze e nelle chiese e diviene oggetto consistente e non più metaforico della Fine e del Silenzio.
L’andamento della poesia di Moreschini tiene allora conto di spinte diverse e a volte opposte, così che deve tenere ferma una pronunzia ideale e quanto più possibile coerente nello stile onde evitare che l’urlo e la licenza, l’orrore e l’abbandono, il sarcasmo e l’ansia gli prendano la mano e frantumino l’unità della poetica che riconosce il poeta tra i poeti e fra gli uomini, E il raggiungimento di tale tensione unitaria nello stile è uno dei meriti più rilevanti del poeta tiburtino. Il suo non è solo l’abbandono all’interiore magma che urge, è anche la ricerca d’espressione, è la disposizione delle pedine del mosaico della lingua nel senso che si sente più vicino alla Voce: stile e sensibilità non sono due mondi separati se non si forza in un senso o nell’altro uno dei due termini tanto da cancellare l’altro.
Esistono dei poeti che esprimono una primordiale irruenza (basti pensare a Withman o a Rimbaud) regolando un particolare registro di segni nella loro individuale coscienza espressiva. L’elemento stilistico non viene vanificato ma anzi valorizzato, nonostante l’urgenza espressiva del poeta. Così come conosciamo poeti che privilegiano gli elementi del tessuto linguistico senza però scadere nella pura invenzione o “ pastiche” stilistico( il nostro Ungaretti e Montale se non si vuole ricordare l’estremo vate della parola,Mallarmé).
Tutto questo bene di Dio di citazioni “illustri” per dire come nasca sprovincializzata per lo meno in buona parte la poesia de Nostro, se in essa vediamo il tentativo di accordare parola e sentimento in una scansione omogenea e peculiare. E questa scansione, dovevamo arrivarvi, è a carattere “esemplativo” più che “esplicativo” in una regolazione essenzialmente paratattica costringente del verso.
Dicevamo che il poeta ricerca una omogeneità di stile per convogliare, stimoli che altrimenti spingerebbero verso direzioni diverse; cosicché una certa lezione di condensazione ermetica non lascia indifferente Moreschini.
E come non riconoscere nel” leviga, rosica, schiaccia/ bolle, arroventa, brucia/ .. un ascendente ungarettiano che è fatto proprio in un contesto così diverso e peculiare come l’esecuzione dei democratici spagnoli alla garrota…? La parola “stretta” è allora metafora di un’aspirazione all’assoluto per compensazione del piccolo atto quotidiano che non può essere gratuito; la percezione della parabola finale non può non essere abbandono al Niente, alla gratuità:” L’aratro m’ha scavato la fronte/ e il tempo m’ha vendemmiato i capelli/.. Metafora stretta a colpi d’ analogìa fra elementi naturalistici e sentimento del proprio essere, accettazione della terrestrità di un viaggio dentro i confini del tempo ma non irritamento di una carica spirituale che attraverso questo viaggiare viene maturata, sepolta a volte e ritrovata in una dialettica che, per essere poesia vera, non può non essere disperatamente umana. Alcune immagini sono così forti, a volte esacerbate da una vena espressionistica, che la ricerca poi di un Altrove o di un attimo di Bellezza qui sembrano, ad un’analisi affrettata, momenti del tutto gratuiti: credo che da questo punto di vista dobbiamo respingere un troppo accentuato ideale di immutabilità fine a se stessa spesso scambiato per coerenza o coscienza di poesia.
I momenti contrastanti di una memoria “narrante” non debbono per forza di cose essere presi, legati e immobilizzati in un fascio dove tutto è calcolato, limato e riportato in bella armonia di forme sulla pagina. Le oscillazioni umorali possono in ogni caso riportarsi ad una personalità che ricerchi le proprie ragioni sfuggendo al facile materialismo o alla scontatezza di una chiave mistica per la propria angoscia.
Voglio dire, a costo di ripetermi, che è il segno col quale il poeta si consegna all’esterno del proprio mondo, a ricondurre ad unità le pulsazioni del proprio sentire. Poiché anche uno sperimentalista si potrebbe, a guardare bene, localizzare in alcune coordinate stilistiche seppure con differente gradazione d’analisi. Cosicché tra “ L’ho visti entrare/ negli stazzi/ sgozzare pecore/ e ingoiare agnelli../ e “il mio grido d’amore/ al di là d’ogni muraglia/ La speranza di ridare/ una voce al tuo silenzio./ “ ..corre una dialettica di angoscia-speranza, smarrimento-riconciliazione col mondo; dialettica che lo stile “ stretto” ma non ermetico in senso letterale mette in evidenza con quella scansione minima priva d’effetti “ eleganti” ma radicata e immediata in quella “ trasparenza espressiva” che ebbe giustamente a rilevare il Marvardi nell’introduzione dell’opera prima “ Camminare” di Alessandro Moreschini.
Fino a che visione del mondo e certezza nei valori dello spirito si fondono realmente in un episodio notevole, in semplicità voluta e per questo più rimarchevole, dove la scansione minima non si fossilizza ma diventa esemplazione della propria parola ..” Anche i lupi /questa notte/ resteranno sulla collina…”.
Il lettore troverà nel libro alcuni episodi di estrema contabilità quasi ricordi di infantili strofette. Credo che si possano ricondurre all’interno della scansione del Nostro se vogliamo vederci la consapevolezza che il quotidiano ha
completamente invaso gli spazi deputati una volta al suo contenimento attraverso le paratìe dell’innocenza e, per altri, della fuga: ora i versi facili dell’incoscienza fanciullesca servono all’espressione di stati d’animo ben diversi.
Il rifugio nei luoghi comuni, non è più giusto sembra dire Moreschini, perchè neanche al poeta è ammesso voltare le spalle al mondo; anzi è lui che deve scontare l’abbandono dei Consunti e inservibili rifugi per ritessere un nuovo accordo col mondo, e in ogni caso indagare il dolore e le risposte ad esso.
Alessandro Moreschini non ha, una risposta totalizzante da dare. In negativo o in positivo; ha una proposta stilistica operante su un ventaglio ampio di situazioni interiori, seppure legate da una sola personalità, da un solo sentire. Se la sua è una fede nell’Altrove essa non può essere un sufficiente motivo di poetica, immerso com’è il poeta nel chiaroscuro del giorno terreno.
Ed ecco così la finale risposta al gran vecchio della poesia Italiana, al suo lucido Teorema esistenziale che il Moreschini sente soffocante, nella pur grande dimensione poetica creata da Montale “ Orbene smettila/ di negarti e non credere Oltre i tuoi “ cocci aguzzi di bottiglia”.
Marco TESTI
Un altro testo poetico di Alessandro Moreschini dopo i già noti “Camminare” del 1971 e “ Sazio d’erbe amare” del 1977, “ IL CANTO DELLA MEMORIA” Un altro capitolo di quell’itinerario dello spirito che il poeta percorre coerentemente e dolorosamente in un travaglio interiore, nel quale si pone dinanzi ai grandi “perché” della vita, anche se ne afferma l’inutilità proprio nel primo verso: “ Che vale chiederci i perché…” con la drammatica esistenza di chi crede fermamente, o almeno spera, che il mondo possa abbattere gli steccati dell’incomunicabilità e della diffidenza per “ camminare insieme anche domani…”
L’attenzione dell’autore , questa volta, è dichiaratamente rivolta ai ricordi, che danno vita al discorso, ma indicano indubbiamente un travaglio interiore senza pause, perché anche negli altri testi i ricordi sono parte pregnante di tutta la sua esperienza umana ed artistica. Quindi non solo una riflessione sul passato, spesso amara, di quell’amarezza che ogni poeta prova nel trovare la realtà difforme all’immagine interiore che ne ha, ma anche un occhio amoroso aperto sul presente e soprattutto sul futuro che sogna purificato da violenze incomprensibili e scioccanti, perpetrate “ alla prima tenebra”, quando lo spirito abbassa la guardia e consente il dilagare della bestialità e dell’odio disumano e disumanizzante, che resta chiuso, ma che, quando dilaga, mostra ferocie senza limiti, capaci di lasciare il segno della memoria e di esplodere in canto doloroso di contestazione e di rabbia “ Lo visti entrare/ negli stazzi, / sgozzare pecore/ ed ingoiare agnelli” – dalle colline / rosse scendono i vivi/ carichi di morti…/ – Il tuo Auschwitz”, l’ho scolpito/ nella pietra…/e qui resta..” Ed anche il paesaggio è segnato dalla tragedia, quasi spettrale nella reale-irreasltà di una devastazione inaudita ed il paesaggio dello spirito si riflette come sconvolto dall’orrore, per l’innaturale, il mostruoso, l’ingiusto prezzo pagato alla stoltezza e alla presunzione.
Antonio CERINI- Periodico Il cittadino.
Prefazione di: Marco Testi
Casa Editrice: IL CENTAURO
Anno di pubblicazione: 1987