Il titolo del volumetto non è isoterico, non è ermetico: è quello stesso della breve lirica che trovasi a pagina 36, interpretato graficamente dall’incisione del violino riprodotto sul frontespizio della copertina.
Moreschini è poeta bilingue e si esprime bene tanto nella lingua ufficiale, quanto nel sapide dialetto castellano. Questa tra le sue pubblicazioni di versi è la sesta, curata da F. Sciarretta, che ha scelto “fior da fiore” con una diligente prefazione “ad hoc” da cui in succinto si viene a sapere tutto.
Sono una cinquantina di poesie, tra le più caratteristiche, ma soltanto una diecina in dialetto, le più curiose e tipiche apparse nella produzione vernacolare di Castel Madama. Il “castellano” è un dialetto che “ per opera di Moreschini ha avuto dignità letteraria” come si afferma nella prefazione: il nostro poeta infatti calca i sentieri parnassiani da un ventennio ed ha mietuto lusinghieri apprezzamenti, a partire da quelli di un altro poeta , Umberto Marvardi che per primo nel 1971 ne riconobbe il valore, l’ispirazione ed il lirismo; altri in seguito ne hanno evidenziato i motivi della sofferenza, della nostalgia e della speranza.
Ma forse i suoi versi in dialetto si palesano più freschi e genuini, sebbene si debba riconoscere lo sforzo che costano talora per “ tradurli” bene in lingua italiana, non essendo il “ Castellano” l’idioma nativo di tutti i lettori. Comunque l’artificiosità e la nebulosità di certa poesia ufficiale in lingua italiana che ama troppo abbigliarsi di oscure caligini, sono assolutamente lontane dalla magia di questo dialetto, che con parole semplici, talora anche sdtrane o buffe, si stempera in una solare musicalità, bucolica o agreste, di ovvia comprensione e di percezione immediata, Si legga” La ballata della vita” : nei suoi quaternari o tetrametri, chimateli come volete, anche peoni, ionici,coriambi, antipasti,ditrochei, digiambi, epimetri a seconda dell’accento che sventolano allegramente o delle simpatie prosodiche, classiche ed estetiche a voi più congeniali, si risolve in fondo come una rustica “saltatio” l’eterna italica Tarantella, canzone a ballo intimamente mesta, ma saggiamente rassegnata al destino dell’uomo: “Matalena,/veramente/ ‘n-zavveratu/ propriu niente”! Dopo tanto penare, ci si accorge alla fine che la nostra povera vita altro non è stata che “ ronzìo d’un’ape dentro il pugno vuoto”. Eppure, in quellossessivo e ricorrente ritmo si coglie qualcosa di dionisiaco, che trascina in una specie di “danse macabre” alla Saint Saens, nel tentativo di annullare la disperazione esistenziale. Tuttavia questo indugiare sul ritmo, che è proprio della poesia dialettale, è stato ripudiato dall’odierna sedicente poesia, esibendosi essa monotona ed esangue, spesso anche funerea e disperata,in una piatta e prosaica andatura, priva di qualsiasi guizzo metrico e musicale. Sembra che si vergogni di seguire le orme della sua nutrice, l’antica e nobile musa della “ “cafoneria”.
Camillo PIERATTINI ( Atti e memorie Società Tiburtina di storia ed arte).
Prefazione di: Franco Sciaretta
Casa Editrice: IL CENTAURO
Anno di pubblicazione: 1988