Alessandro Moreschini - Poeta

Oltre il suono delle parole...

CUTURUNI CUTURUNI PE LLA PALLATANA

Possiamo ben dire che è la prima raccolta di poesie scritte in dialetto castellano e non solo anche il primo libro scritto in dialetto. Per la verità all’atto della pubblicazione dell’opera a Castel Madama erano stati dati (1980) alle stampe una raccolta di canti popolari di Castel Madama dal titolo “ FESTA LONGA” a cura della biblioteca Comunale testi peraltro, come afferma lo stesso gruppo “Bella Piazza” nella prefazione, ” poesie che risentono dell’influsso del dialetto romanesco” e direi ovviamente (trascritte sulla carta senza alcuna norma) non attendibili nella trascrizione e nella grafia.

Poche persone forse nessuno, conosceva il testo “Avviamento allo studio dell’italiano nel comune di castel Madama di Oscar Norreri pubblicato nel 1905, ripubblicato successivamente dal Moreschini stesso dopo aver fatto ricerche sull’autore dell’opera.

Questa prima Pubblicazione del Moreschini ebbe un grande successo editoriale ( non era stata ancora distribuita a coloro che l’avevano prenotata, tanto che fu necessaria una seconda edizione per soddisfare gli acquirenti e le richieste anche di studiosi della poesia dialettale venuti dai paesi del comprensorio e non.

L’opera è stata presentata il 20 febbraio del 1983 presso la Sala Consiliare di Castel Madama. I relatori erano Il Prof. Marco Testi autore di un saggio conclusivo sull’opera e il Prof. Franco Sciarretta autore della prefazione del libro. Erano presenti anche il sindaco, Luigi Nonni, l’assessore alla cultura Bernardino Chicca e il Prof. Angelo Moreschini.

Attilio TESTA il Tempo

Cuturuni cuturuni pella pallatana è la più alta espressione poetica, fra le varie della Valle dell’Aniene, curata perfettamente anche nella grafia, che è la più vicina possibile ai suoni reali del dialetto castellano. A mio avviso questo lavoro di Moreschini è superiore tra quelli editi, per una maggiore profondità spirituale, per la freschezza dei temi trattati, per la capacità di esprimersi con proprietà di linguaggio, con una lingua che ormai non si parla da tempo. Mi ha interessato innanzitutto la mancanza di provincialismo nel senso che non c’è alcuna differenza fra poesia dialettale(che noi tutti amiamo) e che conta oggi per la storia delle lettere italiane, e il suo dettato lirico che resta immune da compiacenze d’ordine locale. Ho gustato anche la singolarità della sua voce in lingua italiana e i temi che sviluppa anche nel dialetto di proposito, della pace, bene sovrano di tutti.

Giacinto Spagnoletti

 

Questa prima raccolta di poesie di Alessandro appare in un momento di grande interesse per il vernacolo ed è quindi destinata al successo, soprattutto se si tiene conto dell’assenza di sillogi analoghe nel territorio tiburtino.

Ma al di là di questo, l’importanza che viene ad assumere supera il valore locale, essendo testimonianza sia di una parlata, che come tutte le altre va scomparendo, sia di un costume di vita sociale in un grosso paese a ridosso di Tivoli.

Occorre subito dire, anzi, che questa è la prima raccolta di poesie in dialetto “Castellano” che sia stata estremamente curata nei particolari, in cui si è rispettata quanto più possibile la fonìa di una parola e in cui si è ricercata con un lavoro di vera filologìa, l’espressione tipica, il termine specifico, essendo il poeta ricorso continuamente alla viva voce degli anziani.

Ed è proprio loro merito se queste poesie rimarranno testimonianza di un epoca, oltre che di un dialetto; la quale epoca, tranne qualche rara eccezione, sembra essersi arrestata a tre-trentacinquanni anni fa, cioè alla fanciullezza del Moreschini, i cui giochi e passatempi sono ricordati con nostalgìa di chi sa che ormai è finito il tempo “ de canno la ggènte/ cammina scavoza/ o co le scarpi sfonnate…” oppure di quando “ se cambea dine pe ddine/ co ppocu e niente,/ co ju temore de Ddio e de la ggènte…”

Ma gli aspetti sociali non sono l’unico spunto alla poesia del Moreschini. Accanto ad essi appaiono infatti, i nomi delle Fonti e delle Sorgenti, dei Quartieri e dei Vicoli, di quegli elementi vivi come persone, ai quali ricorre con amore il pensiero del poeta.

In questo senso va interpretato il lungo elenco delle Acque di Castel madama, nella poesia” Cant’è bbona l’acqua de Casteju”, che non ha nulla di arido per chi le ha conosciute, amate o soltanto rispettate, perché lasciateci dagli antenati.

Lo stesso è per i giochi e per la serie di soprannomi appartenuti ad individui ancora in vita o trapassati, tutti nòti direttamente o indirettamente al Moreschini.

Un gruppo di poesie esula dalla rievocazione della vita sociale di Castel Madama e, se non fosse per il dialetto, potrebbero assegnarsi a qualsiasi Paese , come si verifica per “ Stella una, stella dova, stella trene”, “Era ju tempu”, “Marema”, “E’ nnuvale”, “Cantemo a mmucchi””, “Vello de sèmpe”, “Fra le leveta”.

Fra i temi sociali particolarmente importanza assume, oltre a quello della pace, quello dell’ingiustizia, delle prepotenze dei “ pussidenti” nei confronti della povera gente, alla quale dichiara di appartenere, con fronte alta il Moreschini.

Questa riusciva a stento a sopravvivere mentre loro, i padroni “ de lo fore, de le Palazza…” e, quindi del paese.” magneanu a curu sturatu/ e sse faceanu pija ju sulluzzu..”.

Un’attenzione particolare è rivolta alla “Mari” (madri) schiave della casa, colpite da doppia ingiustizia, eppure sempre pronte a dimenticare come creature angeliche e ad ammazzarsi di lavoro “..comme véstie…” ed ovviamente alla sua mamma, la “ Femmona senza scòle “, che proprio perché “senza scole”, istintivamente è “ Pe lla ggente scavoza, pe ‘i senza casa/ pe viji che teneanu solaménte/ ‘n-tocciu de pane tostu/ e ‘na menestra…”.

LINGUA E STORIA

Lingua e storia vanno insieme, questo si sa, e a volte, come anche Engels si sforzava di far capire a qualche maniaco della letteratura popolare a tutti i costi, più il grado di consapevolezza di documento si abbassa, più ne beneficia l’analisi storico-antropologica, avendo davanti a sé chiari momenti di una lingua e di una concezione del mondo ormai, nel caso di tradizioni popolari, in via di estinzione.

Non inganni l’uso e il consumo che da parte di frange della borghesia “chic” è stato fatto di alcune derivate popolari, la finta estasi davanti a reperti nàive o a trasmissioni orali ancora verificabili.

Il tutto diventa collocazione di mercato, e fra gonne, camicie, fazzoletti, quadri, cose di “buona fattura contadina”, comprate a prezzi vertiginosi al più “In” (furbo) antiquario dei paraggi, tutto viene piattamente ricondotto a leggi ben attuali, lontane da nostalgie seppure frustrate o da contemplazioni indotte e mal digerite.

Guai ai vinti, e qui per vinti si intendono non tanto le fasce popolari artigiano- contadine che in qualche modo sfruttando la loro attualità e il loro istinto pratico possono tenersi a galla; bensì ci si rivolge a quella componente peudo-intellettuale o “ colta” a metà, che fa della consumazione di mode” progressiste” il suo motivo ormai principale di precaria identità. Dicevamo della lingua, la Langue saussuriana, radice generalizzata e tipologia di un comportamento orale che poi varia nelle diramazioni sotto- etniche e infine individuali. Essa lingua nel Lazio ha radici lontane e neanche troppo omogenee. Da una matrice in parte Etrusca e in parte Osco –Sabina, si è giunti ad una regolazione ellenica e poi barbara passando perfino attraverso lemmi arabo- saraceni.

Naturalmente il retroterra laziale è quello che offre maggiori garanzie, di omogeneità linguistica da una certa altezza cronologica in poi; arroccato com’è nei suoi castelli su colline o picchi una volta difficilmente espugnabili.

Castel Madama, a pochi chilometri da Tivoli e in ogni caso a pochissimi dalla provinciale Empolitana, è un esempio di raggruppamento di poverissime case contadine intorno ad una fortezza militare in mano agli Orsini, nobili signorotti che dal 1308 restaurarono e ampliarono le mura difensive.

In verità, come molti altri borghi medioevali, Castel madama, ha avuto, circa nel X secolo, una remota origine difensivo- religiosa.

Il suo nome (fino a quasi tutto il XVI secolo) era infatti Castrum Sancti Angeli, ampliamento dei numerosi conventi dell’alta valle dell’Aniene.

I suoi abitanti provenivano in buona parte dalla distrutta città di Empiglione messa più volte a dura prova (e spesso a ferro e fuoco) data la posizione di Castrum su passaggio obbligato e quindi battuto prima dei romani poco inclini ai complimenti e poi dai ben suscettibili e spicci gruppi d’uomini di razza germanica.

Come si vede origini già immerse in una dimensione di dolore e sofferenza. Se mettiamo nel conto che nonostante la signorìa di Orsini, Medici e di Margherita de’Austria (dalla quale derivò poi l’onomastico Madama al posto dell’antica denominazione) spesso da Tivoli arrivarono più spine che rose, a causa delle pretese dei tiburtini di far pagare pedaggi a tutto spiano regolandosi poi in caso di rifiuto più con le armi che con i sermoni, e Castrum S. Angeli era molto più piccolo della minacciosa Tibur, arriviamo alla conclusione che la storia del paesello in questione era già segnata, come in gran parte dei paesi ad origine medioevale, da una ruga profonda di subordinazione, di precarietà, di asservimento senza condizioni, di povertà sempre ad un passo dalla miseria.

I signorotti, si sa, spadroneggiano e puntano più alle soddisfazioni personali che al bene comune, e se poi questi hanno interessi (e cuore) altrove, allora è più nera per i poveri pastori e agricoltori: non si conoscono i problemi del posto, gli abitanti non vengono difesi a dovere, la fedeltà alto medioevale lascia il posto a rassegnazione servile o a rancore foriero di lutti spesso inutili.

In questa cultura della subordinazione si inserisce una lingua dura, contratta, con frequenti affricazioni e raddoppiamenti con esiti enclitici (+ ne) o contratti (‘n-ce, non c’è) con rotacizzazione delle linguali sorde (da l a r ) , con la resistenza della u al posto della o e la persistenza, documentabile anche questa, come nel caso della u , in altri dialetti come quello siciliano, della i al posto della e sotto accento e ancora fusioni di più parole, l’allungamento della i intervocalica o la vocalizzazione della liquida (gli in je).

Sono testimonianze d’una assimilazione da altre componenti, l’abruzzese e l’alto laziale, residui medio-latini che hanno la fioritura di un dialetto che, ancora oggi parlato dai vecchi, è trasmesso ai giovani attraverso lo scherzo, la festa, il lavoro ma che conserva in alcuni casi quel patrimonio di Dramma che lo ha visto fiorire.

Alcuni poeti e/o ricercatori tentano di riprodurre il vecchio stile attraverso la ricerca dei vecchi detti o motivi e si curano della loro conservazione.

Alessandro Moreschini invece ha preferito adattare al dialetto delle sue origini alla sua poesia più sentita, quella individuale, moderna, adeguata ai tempi; operazione pericolosa, che in caso di fallimento vedrebbe, da una parte una serie di contenuti grezzi e dall’altra, staccata, una lingua che deve essere compresa al massimo della sua potenzialità, per ritornare funzionale ad un qualsiasi discorso.

Moreschini ha già alle spalle le sue brave pubblicazioni di poesie ( due libri di cui l’ultimo con Rebellato, un terzo in attesa di pubblicazione dal titolo “ Il canto della memoria” con prefazione dello scrivente) ed è per di più castellano, anche se vive a Tivoli da molti anni; perciò arte e parte lo aiutano a superare il fosso, facendo nascere questa raccolta di liriche che non sono né popolari, né d’avanguardia, ma assumono i termini del dramma dell’esistenza, antico e moderno, con una lingua che ne conosce i registri.

Emblematica la conclusione di una di queste liriche “ Issu ‘i responnea co’ j-occhi/ e sbattea ju pède pe ttèra/ come pe’ ddine:/ So’ vivu ancora ce stòne.” ( pag. 37).

La lingua delle colline è ancora viva, a fatica, ma è viva, e forse pronta a passare la mano ai nuovi che vivranno nella società ma non la dimenticheranno, anzi, la trasmetteranno, così come fa il poeta.

E’ così che possiamo ritenere, in questa poesia così individuale, interi elenchi di usi e costumi locali “ A rasu te la déa/ e cólema la revoléa/ la còppa de cranu,/ de prima stagione”; per ricordare l’usanza di un prestito in natura ad usura per il quale il più delle volte andava di mezzo la donna del contadino povero, ribadendo una situazione di subordinazione nella subordinazione spesso dura a morire.

Da notare la presenza di intere appetitose elencazioni verbali di notevole interesse documentario “ pascemmo, stingemmo, ammannemmo, sderuncemmo, mognemmo, metemmo, accajemmo, ammanocchiemmo,tritemmo…revalicheanu, scacchieanu,reccapezzeanu” (pascolavano, tagliavamo canne,preparavamo le cose per il giorno dopo, sradicavamo, mungivamo, mietevamo, trasportavamo con le bestie il grano dai campi alle aie, mettevamo uno sopra l’altro i covoni di grano in attesa della mietitura, tritavamo il grano con i cavalli, passavano la farina con lo staccio, preparavano la ginestra per legare le viti, accudivano la vigna raccogliendo cose utili).

E inoltre documenti di infanzie che in questa dimensione assumono il tono e il valore di una trasmissione di tradizioni con i tempi abissali di conservazione, tanto la scarna preposizione di dati è venuta da una coscienza d’immobilità, seppure oggi precaria, che viene da lontano: “’N-cursiju d’acqua piovana/ e ‘na barchetta…/’Na scatoletta vuita de magnesia/ co’ daventru ‘na nicheletta…/ ‘n-tocciu de spicchiu virdu de buttija/ e ‘na buscetta…/ ‘nu lasticu/ e ‘na ruzzichetta… e l’ore, le dine, i misci, j-anni/ e la giovinezza meja..” pag. 16).

Il poeta sicuramente non ha la pretesa d’assurgere la sua a giovinezza esemplare: la riporta seccamente come essa è, e qui, nella mancanza di melodie accattivanti, nasce quell’incerta, irriconoscibile altrimenti, fascinazione del passato, bello o cattivo che esso sia stato: è la giovinezza che è stata, e che è “partita” per sempre, ma di cui si conserva ancora qualcosa. Quel qualcosa è l’attaccamento a ciò che è merce, non è profitto, che gli uomini chiamano inutile. E’ la coscienza di una tradizione e d’una poesia delle cose che sopravvive a stento e a fatica. Ed è missione, come senza prosopopea ogni poeta sa. Missione sulle rovine di un mondo che non è stato affato romantico, anzi: “ Straccu, vecchiu, rencriccatu, poviru ziteju/ se murine l’ara dine pe Casteju/ ‘ndriminti petea la lemosina../ Issu, poru Franciscu, ch’era vivutu comme ‘n-fisculu...”(pag. 73).

Una lingua quella castellana di Moreschini, della mancanza del desiderio e della sua frustrazione, del gusto della descrizione del carattere vivo:” M’abbastirìa/ la metà de mezzu/ de ju livitozzu de Sor’Agnelo…/rimittirìa l’oju/ pe ttuttu j’annu: pe ccasema/ e ppe ju lume de màrema a cammusantu…”( pag. 47).

Cosicché si arriva ad un altro dei punti chiave del patrimonio popolare: la proiezione nell’Altro, all’incontro-scontro con l’Assoluto.. Ma anche qui Moreschini coglie fiammate autentiche e non piattamente folcloristiche, di vita popolare vera, di desideri inappagati, d’umane e riconoscibili, \quindi universali debolezze e ingenuità: “ No’ mme dine che tra mme e Ttene/ ce stavu mille dine/ No mme sirviristi…” oppure:” ‘N-te rindi cuntu/ che ‘n-ce la faccio ppiùne ?/ Ma nollo vidi come so’ riduttu?/ Amminu, de vello che mm’ha prummissu/ pe j-aru munnu, dammene ‘n-accuntu..!”.

L’impianto stilistico è sorprendente: in una lingua dura il Moreschini riesce ad esprimere un senso della storia tutto nelle cose e mai nel proclama, mai nel programma retorico. Di più, soluzioni di profonda liricità riescono a piegare questa lingua di pastori e contadini in una semplicità fulminante.

Qui entra in funzione la categoria precisa della cultura, ma anche della sensibilità del poeta: il suo stile che deriva da un dettato interiore macerato da anni crea un linguaggio nuovo, e di nuovo “medio”, cioè accessibile al lettore comune ma proveniente da una realtà bassa, come si diceva un tempo “ comica”,

Nasce così ai nostri occhi la lirica, nel senso più stretto del termine, lirica non più povera ma che raggiunge il sentimento senza presunzione, lo apre e vi tocca corde che sembravano ormai rotte da tempo: “ ‘N-te straccà/ de fa la sciricarella/ de segnà campane,/de fujine a ppedi a ‘n-circhiu/ de bricichetta o dde callaru..//Remani, se ppone, /n’ara sra a ‘sta soggetta, / pe’ ddine l’utima vòta da chiattareju: / stella una, stella dova, stella trene…”(pag. 17).

Esce fuori insomma, il poeta che non è più chiuso nella sua individualità lamentosa, che redige l’inventario, come è solito nella nostra letteratura provinciale dilettantesca, delle proprie fissità ipocandriche, delle proprie mancanze di vita e di realtà.

Qui è proprio la realtà a dare saggezza a queste litanie, una realtà che a volte può essere subita, ma che non è mai esorcizzata o sfuggita per la tangente. La malinconica evidenza dei rimpianti qui diventa l’accettazione di una dimensione che è in conoscibile e inevitabile. Il ricordo consola e fa forti, e la presenza di una Patria, di un luogo mitico e pure reale, segnato dalla presenza ora allegorica della propria giovinezza rafforza l’istinto a conservarsi nella vita e nella storia.

Moreschini che è un poeta con un forte ascendente ermetico sfugge grazie a questa sua collocazione a tentativi decorativi e a quelli crepuscolari, lamentosi: non predica, ma estrae dalle cose le poche parole che significano qualche realtà. E quella bambina che gioca a “ Stella una, stella dova, stella trene ” in realtà è l’immagine della poesia e dello stile del poeta.

Questa vita ci assale, ma noi non possiamo scavare un tunnel che ci preservi e ci riagganci con la terra, la dea Gea, la grande madre, con i nostri morti che a lei sono tornati, con tutto un universo che viene da molto lontano, ci pone all’evidenza e ce ne fa anche critici.

Scontato che la poesia è una critica all’evidente, ma una critica soggettiva, che non può cambiare gli oggetti come una fissione nucleare, ma può viverli sotto infinite modulazioni dello spirito, è allora chiaro che al poeta non rimane che l’immaginazioni; la poesia, la bambina, la vita continua a giocare, a girare o recitare una medesima ballata, che pascolianamente solo i più umili ascoltatori possono udire.

Se si abbassa la voce, ma non la si spegne.

Marco TESTI

 

Castel madama, oltre ad essere un luogo turistico è anche sede  di cultura e di editoria. Nell’ultimo decennio   è stato ristampato(1979) il volumetto di Luigi Testi su “ Castel Madama”, cenni storici geografici , apparso per la prima volta nel 1912. Nell’anno seguente, vedeva la luce   a firma di Renato Lefebre “ Margarita d’Austria e l’Italia del ‘500”. Nel 1982 ancora una ristampa della cantica in versi di Pieralice de Vecchi di Castel Madama dal titolo” Le glorie del primo Arcangelo” gia pubblicata nel 1912.

E’ dell’83 , però, la perla delle pubblicazioni ; ossia la prima raccolta di poesie in dialetto castellano dal titolo “ Cuturuni cuturuni pe lla pallatana “ di Alessandro Moreschini. Una edizione impeccabile, esemplare, mai edita nel comprensorio, per una poesia di straordinario vigore, senza concessioni, irrobustita da un dialetto forte, fatto di parole ed espressioni scolpite nella pietra. Oltre tutto alimentata da ricordi, dalle nostalgie ma anche del presente ed uno sguardo al futuro. Dopo l’amore per la propria terra, anche i grandi motivi umani, le meditazioni sulla vita. I ritmi primitivi, primordiali, di un’esistenza stentata, molto spesso spietata sia pure al passato “ ‘N-ce stea niènte…E i sorprusi dei “patroni”. “issi, issi, issi soli…” Tutto attraverso l’ssenzialità cosi accessibile e rappresentativa, che costituisce la forza, ed anche uno dei privilegi del dialetto. Sempre che lo si sappia usare bene. E Moreschini sembra non abbia fatto altro in vita sua. Anche allorché, quasi a voler fissare più a lungo memorie e tradizioni , si sofferma in saporite elencazioni. Un mezzo molto comune ( lo usava Belli) ma che tesori in quel susseguirsi di parole. A cominciare dal minuzioso censimento delle acque, delle fonti, delle sorgenti: “Cant’è bbona l’acqua de Casteju” I vari oggetti di casa e non ultimi una serie di soprannomi decantati in versi sciolti ed anche a rima. Un incanto di forza popolare oltre poetica,l’opera di Moreschini che sicuramente i castellani sapranno apprezzare. Chi scrive versi come “ Issi, issi soli, o altre come “Se nn’angosceanu...” o “ comme ‘n-fisculu” ed altre, non può non essere chiamato vero poeta.

Livio JANNATTONI momento sera.

Prefazione di: Franco Sciaretta

Casa Editrice: IL CENTAURO

Anno di pubblicazione: 1983