Scavi archeologici e fonti letterarie testimoniano che molti giochi della civiltà contadina Castellana hanno origini lontane ossia provengono dai greci, dagli etruschi, dai romani ed altri antichi popoli …
Ad esempio il gioco della campana, uno dei più diffusi al mondo, sia pure con le sue varianti, da moltissimi anni era praticato in America, in Cina, in Russia ed in Inghilterra ed ancora prima in Egitto. Anche gli antichi romani lo conoscevano e ciò è testimoniato dalla campana che ancora oggi si può ammirare sulla pavimentazione nel Foro Romano.
Anche le biglie (le palline) di vario tipo, di coccio o di bronzo sono state ritrovate nelle tombe romane e sumere, ossia genti vissute migliaia di 2000 anni a.C. In Grecia la nostra buca (buscia) era denominata tropa-fossetta.
Altre testimonianze sui giochi sono le varie scene ludiche descritte su pietre trovate nelle catacombe ed in altri luoghi. Lo evidenziano largamente anche le decorazioni su vasi o piatti del VI secolo a.C. , dove sono ritratti l’aquilone (la stella) ed addirittura la trottola (ju piccuru).
All’epoca dei romani era in uso uno dei primi giocattoli del bambino, il tintinnabula, ossia il nostro sonareju e la bammola (pupae). Comune ai greci ed ai romani era Ju carittinu (la biga). Conosciuti dai romani, dai greci, degli egiziani erano il cerchio ( ju circhiu) l’altalena, la palla. A Tebe in una tomba, sempre per quanto riguarda gli egiziani, è stata ritrovata una bambola in terracotta ed un’altra di stoffa.
Non bisogna dimenticare il valore educativo che i romani, ed in modo particolare i greci, attribuivano ai giochi infantili.
Questi ultimi, celebravano le olimpiadi dei giochi fanciulleschi. I romani praticavano il gioco delle noci, delle piastrelle; giocavano a mosca cieca (a muffa nel veneto) (dove il fanciullo bendato esclamava” “Quisquis ad me novissimus venerit, habeat scabiem); conoscevano il gioco del cerchio (trochus-rota): un cerchio bronzeo che era manovrato da un manico dalla forma ricurva, lo stesso che si usava negli anni quaranta a Castel Madama ed in molte parti d’Italia. Ovviamente l’attività ludica di Castel Madama era comune a moltissimi paesi del comprensorio, quali Tivoli, Vicovaro, Subiaco, San Vito, Gerano, Ciciliano, nonché all’area regionale e direi nazionale.
I nostri avi giocavano a ccoccia o spighe, a disparu e paru, alla morra; i fanciulli romani giocavano a navia aut capite, a par et impar (pari o dispari) o a micatio (alla morra) a dadi (alea).
E’ cosa veramente lodevole che qualcuno, si sia interessato ad una ricerca del genere e non poteva che essere il nostro poeta di valore, lo storico castellano, e diciamolo pure, lo scrittore che ha il merito che tutti gli riconoscono, non solo di aver recuperato il dialetto castellano dettandone anche i fondamentali elementi grafici e fonetici, come ha più volte affermato il prof. F. Sciarretta nei suoi interventi, ma il poeta che, come rilevava a suo tempo la prof.ssa Antonietta Marcelli, ” con le sue opere ha dato vita alla cosa più antica e più nuova: il parlar popolare, generando una poesia umana, bella, musicale e pittorica che rappresenta la storia poetica del suo paese e del suo tempo… “
Già nel 1995 Alessandro Moreschini, aveva pubblicato per le scuole di Castel Madama un’operetta dal titolo Taratabassuca, (conte, indovinelli, tiritere ed altro) riscuotendo il plauso di tutta la cittadinanza e della critica. Ovviamente, il Nostro, ha voluto scavare in profondità alla materia ed oggi ci offre un’ulteriore ed ampia facciata delle tradizioni popolari di Castel Madama per quanto riguarda soprattutto giochi e giocattoli ritenendoli sicuramente l’espressione più autentica e spontanea dell’infanzia.
Anche per Moreschini il gioco stimola nel ragazzo l’inventiva, la curiosità, l’ingegno, la creatività, l’abilità motoria, elementi validi ed importanti per una preparazione alla vita da adulto ed all’attività lavorativa; ed il gioco è soprattutto il mezzo che consente al singolo di comunicare con gli altri, di misurarsi, di competere e di sconfiggere la malattia della solitudine e dell’isolamento soprattutto nell’ambito della scuola, dove la socializzazione e le regole del gioco contribuiscono anche a reprimere la prepotenza e il bullismo.
Oggi in qualche misura tra il gioco e lo sport primeggia quest’ ultimo a differenza del passato e spesso ad un’attività ludica senza esasperazione, si registra una competività eccessiva, esasperante, insostenibile sovente con seguiti negativi soprattutto nei soggetti poco abili fisicamente, come la disistima di se stessi, il vittimismo o forme di reazioni aggressive e violenze.
Ovviamente lascio alla voce degli psicologi, dei pedagogisti, degli insegnanti, il contributo fondamentale che sicuramente l’attività ludica può dare alla struttura della personalità del bambino nell’età evolutiva.
Questa ricerca di antichi giochi e giocattoli, conte e cante, dai nomi ed espressioni spesso colorite, praticati dai primi dell’ottocento sino agli anni ‘60 del 1900, Moreschini ce la offre in forma poetica, spesso sotto forma di dolci cantilene gradevoli ed accattivanti, in un modo tutto suo e per di più, in versi e in rime dialettali e con la relativa traduzione a fronte.
Ciò che sorprende in Moreschini nel trasmettere questi giochi, è la capacità descrittiva, le sue pennellate, la musicalità del poetare spontaneo, offrendo alla memoria del lettore sia gli elementi del gioco sia i relativi effetti.
Forse il suo intento, come pone l’accento lui stesso nella presentazione dell’opera, non è soltanto quello di ricordare i giochi e i giocattoli, ma anche quello di far sì che in futuro possano essere in parte riprodotti, ricostruiti visto e considerato che oggi i bambini, malati di elettronica, giocano sempre di meno.
Vorrei soffermarmi su alcune poesie dell’opera, ad esempio quella della stella (l’aquilone). Per questo gioco il poeta, a
differenza degli altri, sceglie, anziché la tiritera o il verso sciolto, il sonetto. Lo fa di proposito essendo l’aquilone oltre che un gioco materiale, qualcosa che evoca l’aspirazione dell’uomo al divenire, a staccarsi da terra per andare verso l’infinito, alla ricerca di un quid, di una speranza del raggiungimento della libertà, che spesso il destino (il falchetto) interrompe:
…canno apparì fujenno ‘nu farghittu:
róppe ju filu…e sse ne j’ a le stelle…
I versi sono di una sensibilità che solo un poeta può offrire.
Anche la poesia ju Carammatu è un gioco che evoca nella sua mente la guerra…la seconda guerra mondiale, quando appunto il poeta aveva appena sei anni:
…Se ju tigni/co la tera…me recorda/tanta quera…
Scorrevoli e melodici i quaternari, i quinari, i settenari ed ottonari, della Fionna (fionda), della Sciricarella (scivolarella) e de ju circhiu (il cerchio) de ju Battucchittu (battimoneta) dove si manifesta la spensieratezza dell’adolescenza che travalica la responsabilità del danno ad un vetro o altro o la voglia di catturare gli uccelli attraverso una trappola primordiale (la Petraròla). Ed in ultimo ju Pìccuru (il picchio, la trottola) dove il poeta sicuramente ostenta una particolare abilità a manovrare questo giocattolo (un vero trottoliere) ammonendo gli avversari di evitare di competere con lui a Spaccapiccuru, per non riportare (le magagne) danni alla propria trottola.
Da sottolineare l’elencazione delle innumerevoli piacevoli e spiritose tiritere che anticipavano l’inizio d’ogni gioco.
Alessandro Moreschini, ancora una volta ci sorprende con un’altra opera sulle tradizioni popolari, utile e importante per la scuola e per tutti i ragazzi di Castel Madama e non, e sicuramente i castellani gli saranno grati per questo nuovo atto d’amore nei confronti della sua terra nativa.
PRESENTAZIONE
Non sum uni anguli natus:
patria mea totus hic mundus est
(Seneca)
Tra i tanti luoghi nei quali sono vissuto o che ho visitato, ricordo con sviscerato amore la città dei miei studi, Assisi. Mi sento legato volentieri a Tivoli, dove vivo da tantissimi anni e dove sono stato anche assessore comunale. Sono affezionato a Roma sia come città d’arte, ma anche come sede del mio lavoro per 35 anni. Ho nostalgia di rivisitare le tante bellezze artistiche di Firenze, di Venezia e d’altre città e località ricche di naturali visioni di questa nostra “bella Italia…”, città e luoghi visitati e vissuti intensamente, soprattutto durante le ferie estive. Ma il luogo più caro, e prolifico di sentimenti e di memorie, è il paese dove sono nato, Castel Madama.
È qui che spesso indirizzo i miei pensieri, è qui che rileggo il mio passato, è qui che trascorro, quando posso, le ore del tempo libero.
Qui ritrovo la primitiva visione del mondo, del mio vivere, i primi passi, la mia immagine di scolaretto con il grembiule blu ed il colletto bianco, il maestro, il banco di scuola scalcinato, traballante, sporco, consumato, graffiato, inchiostrato…
Qui ritrovo la mia adolescenza, i primi morsi della fame, i primi pianti, le cadute, le “scazzottate”, i giochi, i miei giocattoli fatti di niente, le rincorse; qui rivedo le albe e i tramonti, i miei olivi, le piante, il venticello, l’acque sorgive, l’estate delle cicale.
Qui ritrovo il profumo del grano, del fieno, delle mele, delle pere, dei fichi, l’autunno delle uve, del mosto nelle cantine, dell’olio nei frantoi a dicembre.
Qui ritrovo la fragranza del pane appena cotto al forno, il richiamo mattiniero del fornaio, della lattaia la sera; il verso dell’asino all’abbeveratoio, del bue nei campi, dei cani randagi nei vicoli; il miagolio dei gatti, il coccodè delle galline, il chìcchirichì dei galli a beccare spesso fuori dal pollaio, persino sulle strade, nelle piazze, indisturbati.
Rammento le feste religiose con i riti di S. Michele Arcangelo Patrono, sia a maggio sia a settembre, con la fiera del bestiame, di S. Sebastiano con ju calemme (l’albero della cuccagna), di S. Antonio con la corza de i cavaji, della Madonna co j-atali , di San Sidoro co ju sulicu a le fratti…e poi il Natale, il Carnevale, la Pasqua delle taccatàvore delle gnàcchere e delle suggestive processioni…
Ricordo le donne anziane avvolte nelle antiche vesti (varneji e scialle ) il loro recitare il rosario nei portoni dei palazzi, lo schiamazzo di noi adolescenti lungo le strade e gli spiazzi…le corse estive al fiume e lungo i fossi a fare il bagno… le nostre sere d’estate nei vicoli poco illuminati o fuori l’abitato a catturare lucciole e nelle giornate fredde, entro i portoni a giocare a i quattru cantuni, a mazzarocca, a zompacavaju, a ju schiaffu, a ju cucuzzaru o a anello anello mio bell’anello…a zirumatiju e persino a rappresentare la morte con la cócózza e la cannéla.
Rivedo come in un sogno, il roteare degli scaldini l’inverno, il gioco delle spade a primavera al Prato di S. Antonio, il correre dietro un cerchio, lanciare la ruzzola, spingere un monopattino, una carrozza, cavalcare correndo un bastone come fosse un cavallo o battere una lippa, tenere tra le mani, una fionda, una cerbottana, soffiare bolle di sapone con un cannello di paglia o far roteare una trottola, una pizzarda, lanciare un aeroplano o manovrare un fucile di sambuco, ammirare un’elica salire verso il cielo o alzare un aquilone nell’azzurro. Tutti giochi in libertà, in spazi aperti, in socialità; ricreazioni non programmate né tanto meno precettate come avviene il più delle volte oggigiorno…
Oggi, ad un’età nella quale la vita per me è in gran parte vissuta, ho voluto ricordare né con nostalgia né con rimpianto, ma con lo sguardo rivolto al futuro, i luoghi, la lingua dei miei avi, le loro tradizioni, i loro usi i loro costumi e soprattutto, in questo caso, i tanti giochi e giocattoli, conte e cante che avevano allietato la mia fanciullezza.
I bambini e i ragazzi d’oggi non hanno più veri e propri giocattoli, né li costruiscono insieme ai loro padri, alle proprie madri, ai nonni come avveniva una volta, che pur avendo un’ampia varietà di giochi da acquistare, giocano molto meno, se si esclude la partita di pallone.
Il loro passatempo sono soprattutto i programmi televisivi, i videogiochi, la playstation, le puzzle, senza dubbio utili per lo sviluppo dell’intelligenza, ma ai quali non si affezionano che per un solo giorno. Se si rompono ci sono le tasche di nonno o nonna o papà a comperarli di nuovo.
Non era così una volta. Io ricordo la grande ed indescrivibile gioia che provavo quando con il nonno o mio padre si costruiva insieme un gioco (ju piccuru, ju ruzzicu, ju carammatu) ossia il giocattolo che avevo desiderato fortemente oggetto da tempo della fantasia e dei miei pensieri. Io spesso dialogavo con quel giocattolo e lo custodivo come un bene prezioso, anche perché, nei tempi passati, pochi giocattoli erano in vendita nei negozi, se non qualche bambola o carrettino, e solo per le famiglie agiate, non per la povera gente.
Vi erano in ogni modo giochi per ogni ora del giorno, per ogni mese dell’anno, per ogni stagione. Giochi ingegnosi, affascinanti, sofferti, curiosi, allegri, divertenti, briosi, tutti giochi e giocattoli costruiti con grande inventiva con l’aiuto ovviamente dei padri o delle madri o dei nonni. Giochi che hanno una loro origine antichissima: romana, greca, etrusca e spesso legata agli antichi mestieri dei nostri avi (il calzolaio, il bigonciaio, il muratore, il potatore, il contadino, il mietitore, il fornaio, ju mulinaru, il falegname, il pescatore, lo sediario, il fabbro, il sarto, la cazettara, l’ovara, ju ‘mmastaru, ju facocchiu ) tanto per citarne qualcuno.
Si giocava ( rielencandoli in termini dialettali ancora una volta, uno per uno, senza dimenticarne nessuno) co ju pìccuru (trottola), co la pizzarda (la trottolina), co ju ruzzicu (la ruzzola), co ju circhiu (il cerchio), co l’elica (l’elica), co ju monopattine (il monopattino), co la caròzza (la carrozza), co la ciriminella (la lippa), co i bricci (i sassolini), co la mazzaròcca (fazzoletto annodato), co ju vottone (il bottone), co ju carammatu (il carro armato), co la fionna (la fionda), co la mazzafiónna (la mazzafionda), co ju scuppittu (lo scoppietto), co j-aeroplanu (l’aeroplano), co la stélla (l’aquilone), co ju monopattine (monopattino), co i sordi, a battucchittu o santucciu (a battino), a battimuru (battimuro). Sempre con i soldi si giocava a ccoccia o spiche (testa o croce), a quatrucciu (a quadrettino), a palline (le biglie), a buccinu (senza buca), a piripirì, piripirà a la cadà (con la buca) gioco che a Roma si diceva: zibidì, zibidè, buca c’è…. E infine al gioco delle noci (a nuci) molto in uso negli anni trenta, ereditato dagli antichi romani (ne parla Publio Ovidio Nasone nel poemetto la Noce gioco che viene raffigurato anche in alcuni bassorilievi.
Altri giochi si facevano con le piastrelle (scaglie di pietra levigata), a zicchiuvale (con gli ossi di pesca), a simmorella( gioco che consisteva predisporre dei mucchietti di semola ed indovinare dove era nascosto un premio, un soldo…). Si giocava ai quattru cantuni (rubacantone), a sarda la quaja (la cavallina), ad una luna (uno, monta la luna) ( a cilu o tana (nascondino), a mosca cieca (mosca cieca), a scaricabbarile (scaricabarile, gioco d’abilità), a tocca feru (tocca ferro), a buzzicu rampichinu (buzzicu-toccata), a topa topa (gioco simile al nascondino, dove l’inseguito aveva la possibilità di salvarsi su un rialzo, uno scalino, un muretto dicendo “cunicenzia” e per un attimo il gioco si fermava. E poi, a ‘ncazarella (acchiapparella), a toccaféru (tocca ferro), a picca (gioco a squadre), a corda (alla corda), a ju tiru de la fune (il tiro della fune), a campana (a campana), a zompacavaju, (saltacavallo-a Roma era chiamato saltamontone), a sgrullabastone (gioco d’abilità a tenere un bastone (50 cm.) diritto nel palmo della mano o in un dito correndo), a sciricarella (scivolarella), con le bbolle de sapone, a palazzu palazzu vergine ( palazzo palazzo vergine), a ggiru giru tunnu (girotondo), o che beju casteju (o che bel castello), ed altri interessanti giochi di divagazione di gruppo come reggina regginella quanti passi mi darai, le bbelle statuine, una dova tre, stella.
Ovviamente non vorrei dimenticare i primissimi giocattoli e giochi dei neonati quali ju sonareju (il sonaglio), ju suchittu (il succhietto), la bammola (la bambola costruita con ciuffi di lino o di canapa avvolta in stoffe variopinte per le bambine), il cavalluccio di legno (ju cavajucciu) per i bambini…E ancora giochi e divagazioni, come bella piazza bella piazza, Giggino e giggetto, il gioco del perché, a mazza bubbù canne corna stavu quassù, a Oreste Oreste bbum, a pizza e ricòtta bbu; a ce stea ‘na pecora pazza, a vistu è j’occhiu bbeju, a trucci trucci cavaju, a ssedia ssidiòla, a bumbàra bumbàra, a le mani di papà, dove stà qui o qua ?
Paolo Toschi nel decimo capitolo nel volume “Studio delle tradizioni popolari,” cita tra gli elementi delle tradizioni i giochi e i giocattoli. Questi li considera, così pure Pitrè, il D’Ancona, il Degubernatis e lo stesso Carducci, di particolare importanza, non solo sotto l’aspetto etnografico e demologico in quanto rispecchiano forme tradizionali e popolari, sia dei piccoli sia dei grandi di una comunità, ma anche sotto il punto di vista pedagogico. I giochi e i giocattoli (anche le conte, gli indovinelli, le filastrocche) aguzzano l’ingegno, svegliano la fantasia, acuiscono la destrezza, l’intelligenza, il coraggio…
Nei miei lavori soprattutto in “Taratabassuca”, ho citato conte, indovinelli, cantilene, filastrocche, stornelli e scongiuri e alcuni giochi…ma in quest’opera, che dedico oltre che a mio figlio, a tutti i bambini di Castel Madama, metto in primo piano i giochi e giocattoli di ieri che rappresentano l’essenza e la vita dei ragazzi di una volta sia all’interno della scuola che della famiglia.
Più volte sono stato invitato presso le scuole dell’infanzia, elementari e medie in modo particolare di Castel Madama come animatore per illustrare i ”giochi di una volta…”. ai ragazzi. Ad ogni circostanza ho riscontrato un entusiasmo enorme ed un interesse non solo da parte degli studenti, ma anche dei docenti stessi.
Ho voluto descriverli e decantarli in versi con l’augurio che di essi resti una buona memoria e susciti, in tutti i bambini castellani e non che vivono nella comunità Castellana l’amore per le tradizioni popolari locali perché esse sono a mio avviso una perenne forza spirituale della collettività e rilevano i tratti caratteristici di un popolo e della loro stirpe.
Prefazione di: Elena Perrotta
Casa Editrice: IL CENTAURO
Anno di pubblicazione: 2009