Alessandro Moreschini - Poeta

Oltre il suono delle parole...

A DDO’ JU SOLE

Non intendo in alcun modo annoiare i lettori, con questa premessa, ma un segmento di memoria storica, prima di entrare nel cuore di questa raccolta di poesie pubblicate soprattutto per i ragazzi delle scuole Elementari e Medie di Castel Madama, credo sia utile e opportuno, se non altro per ricreare l’ambiente e l’atmosfera di un tempo.

Appartengo a una generazione che ha giocato con la fionda, costruendo archi, frecce e lance con le canne, spade di legno, scudi di latta e capanne di paglia, per giocare nelle strade nei vicoli, negli spiazzi comunali, nei cortili.

Un‘epoca della quale conservo un’indelebile, limpida memoria sia dei luoghi, usi e costumi, sia della lingua che parlavano tutti gli abitanti della Comunità tranne i quattro supponenti quanto arroganti signorotti.

Racconto la trappola di pietra (la petrarola) per catturare gli uccelli; l’aquilone (la stella), la ruzzola (ju ruzzicu),il pallone (ju pallone) artigianale di pezza, oggetto di mille gare tra giovani lungo le strade del paese; ricordo la trottola (ju piccuru) la lippa (ciriminella), il cerchio (ju circhiu) costruiti con l’aiuto del nonno e la bambola di pezza per la mano esperta della nonna (la bbammola).

Evoco (ju Calemme) l’albero della Cuccagna al centro della piazza Dante il giorno di San Sebastiano, l’antichissima manifestazione d’origine pagana ossia della Pupazza o Pantasema che allietava al suono del saltarello la folla in piazza e poi veniva bruciata; il Pallone alzato alla piazza dell’Olmo a S. Michele, le corse con i Cavalli a S. Antonio, il Solco dell’aratro con i buoi nelle terre dell’Agraria (le Fratti) nella festa di San Isidoro; ricordo le donne che andavano (Velle che vavu) a lavare i panni sporchi a Valle- (del rivo) lungu.

Descrivo le Madonnare che tornavano dai Santuari cantando a squarciagola lungo le vie del paese; i Tridui nelle Chiese, le Litanie dentro i portoni condominiali, accanto alle icone poste sulle facciate dei muri o agli angoli delle strade; rammento il rituale mensile cambiamento (la muta) da una casa all’altra, della Madonna e dei Santi (San Sebastiano, San Isidoro, S. Antonio, ) dai festaioli, con le piccole ma affascinanti e suggestive processioni… e la solita mangiata di ciammellette o de ju tozzòtto. (Le divuzziuni).

Ricordo con passione le fiere di S. Michele dove si vendevano oltre alle varie suppellettili, ogni genere di animale: purchitti, asini, cavaji, vovi, pecora, crapi, pollanche, pucineji, cuniji… e quella più familiare di S. Anna dove si smerciavano per lo più giocattoli, lecornie, angurie e gelati.

Non dimentico di raccontare e descrivere le pasquette a l’Acqua Santa, alle Fratte, a Monìtola, a Monte Papése e le tante altre feste tradizionali: il Natale, il Carnevale, la Bbifanìa quando tutti i bambini credevano che la Befana scendesse dai camini!

A quei tempi, gli anziani lo ricordano sicuramente, si lasciava la chiave di casa nella toppa della porta(A lo ppiù) e i confini dei terreni erano tracciati con il solo vomere dell’aratro o segnati con una pietra; era sufficiente una stretta di mano o la parola per un concordato, un impegno o un patto… anche se a quei tempi non mancava qualche testa matta.

Rievoco i tempi nei quali la quantità dei fagioli, di grano, di ceci, di olive, o di frutti, non si pesava con le stadere, ma con i contenitori ’nu manicutu, ’na spòrta, ‘na soma, ‘m-putiju, ‘n-cucchiaru, ‘na cupella, ‘na conca, ‘m-bijunzu.

I rapporti tra persone erano più schietti; in mancanza di denaro si faceva il cambio (ju cagnu): io dò della farina e tu mi dai dell’olio…io ti dò due uova e tu mi dai quattro mele…tu vieni a lavorare un giorno nei miei campi ed io verrò quello successivo nei tuoi.

Era il tempo in cui si andava a chiedere la mano al padre della ragazza per il fidanzamento…(La parma fiurita) e si faceva j-amore(la corte) una o due volte a settimana in casa della ragazza sotto lo sguardo accorto dei genitori. Le serenate con la fisarmonica o con l’organetto a bocca sotto la finestra dell’amata era un rito; il bacio e l’abbraccio furtivo (a lume de tizzone) tra innamorati di sera erano una conquista e la casa (Casema) e la terra erano il centro dell’universo del contadino.

Le stagioni a quell’epoca erano belle, distinte, quello che non sono più oggi (Le stajuni renfrascate). L’inverno (ju vernu) era il freddo e lungo inverno che si trascorreva tutte le sere accanto al fuoco ad ascoltare le favole (le fanfaluche) del nonno o della nonna (Stella uno stella dova stella trene); epoca in cui per i ragazzi, dopo l’orario di scuola, era un rincorrersi per le strade, roteando scaldini (ju scallinu) accesi per riscaldarsi, giocando a nascondino (a ccilu), o altri giochi di movimento (a sarda la guaja, a zumpacavaju, a buzzicu rampichinu o ai quattru canduni dentro i portoni.

In quel tempo la primavera (Primaviera), per i giovincelli (giuvinuttìji) e le ragazzette (chiattarèlle), era uno scorribandare per le campagne e nei prati a rincorrere farfalle, grilli, tra alberi fioriti e respirare aria fresca, pura… e l’opportunità di fare grandi e ripetute bevute d’acqua sorgiva a ogni fonte, fontanile, o ruscello… (Cantu è bbona l’acqua de Casteju) ed esplorare con soddisfazione il proprio Territorio ( Se ssi’ de Casteju).

Rimembro con gioia i mesi di marzo, di aprile, di luglio, del caldo ed afoso agosto (Marzu- D’abbrileLa state, L’ara de Casamaria), i frutti della terra: ciliege, pere, mele, fichi, albicocche, uve, sorbe e le tante varietà di erbe e di uccelli (J-ortu de nonnema Pippina, I cillitti i cillitti, Cazze e cucùri).

Allora le campagne non erano abbandonate e deserte come lo sono la gran parte oggi, ma erano gremite di gente, sia per l’aratura, sia per la semina, sia per la mietitura, sia per la raccolta dei fruti (ciliegie, pere e mele) nel periodo della vendemmia o della raccolta delle olive. Le strade, non solo quelle rurali o poderali, ma anche quelle provinciali erano di terra battuta dove carretti (barozze) muli, asini, andavano e venivano dalla campagna al paese e dal paese alla campagna continuamente.

E la mia memoria non dimentica la sottomissione dei braccianti ai signorotti, l’abuso e lo sfruttamento delle loro mogli ( Culimu a rasu, Issi issi soli, Comme ‘n-fisculu; Oze camba ); ricorda il saltarello al suono dell’organetto, fuori l’aia, quale ringraziamento al Cielo per il raccolto e, a volte, con soddisfazione, per la scomparsa de ju Patrone” (No n-ve perdete d’alimu.)

Come dimenticare l’autunno con i suoi colori, la raccolta delle uve, la pigiatura (la trescarola) nelle cantine a piedi scalzi; le tante aperture estemporanee di fraschette da parte dei vignaiuoli; la raccolta delle olive e le bruschette nei vari mulini del paese?!…

E come non ricordare le massaie (le vecennare), il forno, il sapore del pane appena cotto. Erano tempi nei quali l’analfabetismo era sovrano in un mondo senza illuminazione, senza acqua in casa (Funtanella funtanella). Si nasceva nel letto di casa (Tuttu ammannitu) e i neonati succhiavano il latte dal seno materno, niente centrali del latte o altri ritrovati… una epoca dove la terra, tranne per alcuni, era l’unica risorsa da secoli…come da secoli viveva e regnava la povertà di molti e la ricchezza dei pochi.

Non dimentico la donna e il suo ruolo di moglie, serva, madre, lavandaia… (La mare è sempe mare, Màrema, Se ‘nnangosceanu).

Come poeta canto una civiltà rurale ormai scomparsa alla quale è subentrata quella urbana, della scolarizzazione, della motorizzazione, dell’industria e dell’atomica della quale Hiroshima segna l’inizio dell’una e la fine dell’altra.

Ebbene nel contesto appena accennato, come scrittore ripropongo, a volte con una poesia racconto, a volte con un canto lirico, momenti di vita e quel mondo popolare con la lengua dei miei avi castellani: il dialetto; una parlata che ho tentato di recuperare attraverso una mole di materiale raccolto dalla viva voce degli anziani con impegno, scrupolo e amorosa dedizione per oltre 50 anni, nonché di letteratura tale da consentire oggi a chiunque di improntare un vocabolario della lingua castellana, avendone dettato, con competenza e metodo, i fondamentali elementi grafici e fonetici in particolare nella mia triologia “ Avviamento allo studio del dialetto nel comune di Castel Madama”.

Con l’augurio di aver fatto con questa pubblicazione , cosa gradita ai professori, ai ragazzi delle scuole Medie ed Elementari e ovviamente a tutti i castellani di ieri di oggi e di domani , rimando, qualora fosse necessario, alla consultazione delle mie precedenti opere che allego in calce, per quanto riguarda : proverbi, soprannomi, modi di dire, sintagmi, indovinelli, stornelli, conte,giochi e giocattoli, testi anonimi, grammatica, antologia e dizionario enciclopedico castellano.

 

L’autore

 

– CUTURUNI CUTURUNI PER LA PALLATANA,

– A CHI SGOBBA LA GOBBA,

– CASTEJU BBEJU TUTTU VANTU,

– E COME CHI NON PARE,

– TARATABASSUCA

– ANTICHI GIOCHI E GIOCATTOLI CONTE E CANTE

– L’ULTIMO DEGLI EQUI

– AVVIAMENTO ALLO STUDIO DEL DIALETTO NEL COMUNE DI CASTEL MADAMA

– CROSTE E MUJICHE

Prefazione di:

Casa Editrice: TORED

Anno di pubblicazione: Prossima Pubblicazione